LaRude

Io mi chiamo Rude. Anzi LaRude.
Il mio vero nome sarebbe Kia Rio 2005, ma il mio padrone ha sempre dato dei nomi alle cose che usa molto. Lui pensa che a questi oggetti bisogna dare un’identità precisa, un nome.
Il mio è appunto LaRude ed era adatto a me.
Sono scattosa, brillante, veloce, senza fronzoli, potente. E ho 12 anni.
Anni passati a servirlo e a portarlo velocemente dove serviva.
La scena era sempre la stessa: lui arrivava e mi diceva “Dai Rude, dobbiamo andare a Parma”. Io rispondevo `Andiamo“, mi legavo la fascia attorno alla testa, mi accendeva, e si andava.
“Si va a Imola”. “Andiamo”.
A Parma.. A Imola… In montagna… Al mare… In palestra… Alle partite…
All’inseguimento dell’angoscia.
Quest’ultima poi è successo tante volte, troppe Io lo so.
“Andiamo”. Sempre Andiamo.
Lui mi trattava bene. Non mi viziava, ma non mi ha mai trascurato. Io lo ripagavo con la mia efficienza; mai un problema, sempre pronta all’accensione del motore.
Anzi.. Gli unici problemi me li ha causati lui, anche se poi mi ha sempre sistemato.
Mi sono divertita un sacco con il padrone, specialmente quando trovavamo davanti a noi i catrami, quelli che vanno a 30/40 km/h. Alla prima occasione freccia e sorpasso a sinistra. Andavo su di giri subito e scattavo di potenza.
Oppure quando ci piazzavamo dietro ad auto ben più potenti e famose di me e non le mollavamo, io piccolina ma pestifera. Rude.
Anzi… LaRude.
Soddisfazione mi hanno dato certe persone di oltre due metri che salivano dubbiosi che poi rimanevano sorpresi
‘Ehi, che comoda,. Non è così piccola come sembra questa auto! “.
Io non dicevo niente ma sorridevo.
Oppure quando mi guidava qualcuno che non era il mio padrone
“Porca miseria, ma che scattosa e potente che è”.
Io zitta. Sempre.
i complimenti più belli li ho ricevuti in questo ultimo periodo.
“Ma la vendi? Ma se è nuova? “
`La vorrei io“
“Ma è messa bene! “
E invece ho 12 anni. E il mio padrone per tutta una serie di motivi che solo io conosco si divide da me.
Non sono contenta, ma comprendo.
Ho ascoltato milioni di volte Columbia degli Oasis. Milioni. Non avevo alternative.
Ma è vero che piaceva anche a me.
E oggi che mi sono divisa da lui, mi ha messo in loop Columbia, mi ha lanciato a 160 km/h per un tratto in autostrada, in segno di rispetto.
Una specie di onore delle armi.
Poi ci siamo fermati. Abbiamo ascoltato assieme la canzone fino all’ultima nota, abbiamo spento il motore, lui è sceso, mi ha baciato il cofano e mi ha detto “Grazie”.
Non sarò rottamata, serviró un altro padrone.
Ma io sarò per sempre Rude.
Anzi… LaRude.

Miope

La mia camera da ragazzo l’ho sempre vista imponente.

Era una camera degli anni ’30, in legno. Mio padre l’aveva portata a casa pezzo per pezzo da un palazzo di Venezia, i proprietari se ne erano disfatti, almeno questo era quello che mi aveva raccontato lui.

Sta di fatto che ho vissuto pezzi interi della mia vita circondato da quei mobili imponenti. I primi anni assieme a mio fratello, poi da solo.

Colore marrone, con diverse gradazioni. Il letto, il comodino, una piccola scrivania, un comò altissimo sormontato da uno specchio incorniciato, un armadio che sembrava più una cappella mortuaria vista la sua imponenza.

Vetri, specchi pesanti. Poi i cassettoni, pesanti pure quelli.

Da piccolo mi sono fatto i muscoli aprendo e chiudendo quei cassettoni in legno, senza bisogno della palestra.

Sempre vista così. Il comò di fronte al letto, l’armadio opprimente alla mia sinistra.

Era tanta, massiccia, solida. E mi dava sicurezza, protezione.

Non era una camera moderna, tipo Aiazzone oppure Ikea, in legno compensato, truciolato, qualcosa che finiva in -ato.

Era vecchia lei, di legno, tutta quanta. Era Nobile.

Ieri sono venuti a prendersela, il nuovo proprietario della casa non la vuole. Così ho trovato qualcuno che la venisse a portare via. Ed ero molto preoccupato.

Così massiccia, pesante. Montata da mio padre. Mi chiedevo come avremmo spostato i mobili, quanti viaggi avremmo dovuto fare.

Prima lo specchio del comò, poi i cassettoni, un pezzo alla volta. Così, semplicemente.

Le ante, l’altro specchio, le sponde del letto, le testate, gli altri cassettoni.

Con ordine, tutto nel furgone.

Via anche lo scheletro del comò’, senza particolari problemi.

L’armadio opprimente, una volta denudato, si è staccato in tre pezzi. Leggeri, quasi friabili. Anche quelli in furgone.

Finito. Chiuso le portiere.

Grazie e arrivederci. Tempo di lavoro quasi un’ora.

 

La  camera non ha fatto resistenza, non si è opposta; non ha fatto fare fatica praticamente a nessuno.

Non si è rotta in nessun pezzo, non ha fatto bestemmiare per qualche motivo.

Nulla.

 

Eppure io di lei avevo rispetto, forse timore.

I miei occhi di allora vedevano una Nobiltà fatta di nulla.

 

 

Dai… Ancora… Di più…

Pure il mio cellulare si era abituato.

Ogni mercoledì, iniziava alla mattina segnalandomi se la linea ferroviaria avesse più o meno problemi e se il treno che prendevo di solito fosse in orario o meno.

Avevo cominciato a pensare che anche lui mi “spingesse” verso quelle due ore di libertà.

“Dai… Vai… Il treno arriverà in orario… Te lo sto segnalando… Dai che ti piace. E poi è bello”; sembrava che mi parlasse così.

Arrivate le 16 scappavo, letteralmente, dall’ufficio. Le mie colleghe mi guardavano strano, forse pensavano che andassi a fare qualche allenamento, oppure a un incontro con un terapeuta, oppure ancora a uno galante. In realtà andavo a fare una cosa che le conteneva tutte e tre.

Mi prendevo dello spazio in me stesso, lontano dai miei soliti mille impegni, lavorativi e non, per fare altro: un corso di scrittura creativa.

Da Novembre ad Aprile, una volta alla settimana, le lezioni si svolgevano in un albergo davanti alla stazione ferroviaria. Io scendevo dal treno, uscivo dallo stabile, attraversavo le strisce pedonali e entravo.

Arrivavo quasi un’ora prima dell’inizio del corso, ma questo mi permetteva di sedermi sui comodi divani della hall, di prendermi un cappuccino, di iniziare a parlare con gli altri corsisti, che via a via arrivavano, di scrittura, letture, autori, case editrici, idee, festival, librerie.

Respiravo qualcosa di nuovo e lo condividevo; non che le altre cose che facevo non mi piacessero, anzi, ma la letteratura era una cosa che negli ultimi anni era cresciuta con potenza in me, e ho voluto seguirla.

Quindi corso di scrittura: didattica con insegnanti, esercizi a casa (a me non bastavano mai), incontri con autori, editor dei nostri racconti.

Anche confronto tra noi, su ciò che si scriveva, spesso sul come. C’erano quelli che volevano scrivere racconti, altri fantasy, altri inventavano storie sul posto. Alcuni ascoltavano e basta.

Tutto l’insieme era piacevole…. No… Più esattamente era bello. Sì, proprio bello.

Il corso ora è finito; ma io sono rimasto come un bimbo che apprende un nuovo gioco e che continua a ripetere: “Ancora!… Bello!… Ancora!… Di più!”.

Ma so che le persone che organizzano devono prendere fiato. Razionalmente lo so.

E’ che la mia parte irrazionale continua a dire: “Ancora!… Bello!… Ancora!… Di più!”.

Cercherò di farmene una ragione; ma se il mio cellulare il prossimo mercoledì inizia a mandare segnalazioni sui treni lo lancio verso il muro.

 

 

INCIPIT II

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La finale è appena finita, il risultato è fissato sul tabellone elettronico. Una squadra ha vinto ed una ha perso.

Davanti a me vedo ragazzi che si abbracciano, distrutti dalla fatica e dalla tensione ma ebbri di gioia. Altri invece sono mesti, se non disperati; qualcuno piange .

Guardo le tribune e la scena si ripete: chi urla, chi sta in silenzio, chi salta, chi sta seduto immobile. Una squadra ha vinto ed una ha perso.

I secondi trascorrono al rallentatore, ed i miei occhi raccolgono tutto e trasmettono emozioni al mio animo, al mio cuore.

Ad un tratto non ce la faccio più, non riesco a controllare ciò che sento, sono in tilt emozionale; mi incammino verso il corridoio degli spogliatoi, lasciando tutto la confusione dietro di me.

Trovo quello della mia squadra ed entro, chiudendo la porta, e mi piazzo al centro; il sole mi colpisce in viso dall’alto dei finestroni. Attorno a me sulle panchine le borse ed i vestiti dei ragazzi, ma anche i loro forti odori.

Sento voci provenienti dal terreno di gioco, mentre io sto cercando di capire cosa sto vivendo. Il cuore mi batte in maniera regolare ma una valanga di emozioni stanno scendendo da me: gioia, rabbia, dolore, soddisfazione, disperazione. Tutte si accavalanno senza un ordine, senza un capo ed una coda, sovrapposte. Vengono da lontano, da storie intricate vecchie di anni e che trovano in quel momento soluzione e fine. Come se tutto formasse un cammino il cui arrivo è questo momento, questo istante..

Di colpo mi giro, urlo “SIIIIII” e sferro un pugno fortissimo al lettino dei massaggi, poi un altro, un altro ancora; con tutta la forza che ho, con tutta la potenza che posso avere.

Poi mi fermo, mi raddrizzo, allungo la schiena e mi rilasso. Chiudo gli occhi ed un sorriso mi appare sul viso: penso al momento in passato ho scelto di smettere di inseguire qualcosa,  ed adesso quel qualcosa l’ho ottenuto. E sorrido.

“Sapevo che ti avrei trovato qui Claudio”.

Apro gli occhi, mi giro e vedo Francesco sulla porta; restiamo in silenzio per alcuni secondi. Che abbia visto ciò che ho fatto? Spero di no, vorrei  far rimanere intimo quello sfogo.

“Devi tornare in campo… Dai”  mi dice.

“Checco… hai una sigaretta?”.

“Ma se non fumi?”.

“E’ vero… ma ce l’hai?”.

Capisce al volo cosa voglio fare e si illumina; come Red Aurbach ed i Boston Celtics, come Tanjevic e le sue Nazionali: la sigaretta post partita, quella che si gusta più di tutte le altre, quella che ha un sapore speciale.

Mi avvicino e ci abbracciamo con forza, lungamente, anche se siamo intrisi di sudore. Ci stacchiamo e poi Francesco mi dice: “Più tardi ti passo una sigaretta ma ora torniamo in campo; non lasciamo i ragazzi da soli”. Sento che ha ragione e quindi usciamo dallo spogliatoio.

E poi come due bambini corriamo verso il campo.

One Step Beyond

Lo so… Lo avevo scritto.

Avevo promesso che avrei scritto qualcosa quasi ogni giorno in ricordo di mia madre; ma dopo il secondo lutto mi sono interrotto.

Quel modo di razionalizzare è stato spazzato dal secondo colpo… e mi sono fermato.

Non mi giustifico, è quello che è successo e non mi sono forzato nel riprendere.

Ora va meglio. Il tempo aiuta, ma da solo non basta.

Un semplice “come stai tu?” detto da persone gentili aiuta più tante parole, perchè segno di attenzione e di sostegno.

Aiuta molto anche stare a contatto con i ragazzi che, con la loro energia ed entusiasmo, trasmettono forza e  voglia di andare avanti. Ed il bello è che loro non lo sanno che medicina possano essere.

Un pò alla volta, un pò alla volta… mi ritrovo a sorridere ed a ridere sempre di più, senza dimenticarli. La loro mancanza si fa sentire lo stesso, un buco che c’è e che non voglio riempire. Non sono masochista, semplicemente accetto il dolore che si accompagna a quel vuoto in cambio del sentirli ancora in me; l’alternativa è l’anestesia emozionale che ovviamente rifiuto.

E torna anche la voglia di tornare a scrivere, di raccontare, di raccontarmi…

One Step Beyond.

MAMMUTH NELLA NEBBIA

Alvise sa di essere ad Arsego. Non riconosce la cittadina guardando dai finestrini ma il computer di bordo della sua Audi A16 gli dice che il luogo in cui si trova ora è proprio quello, Arsego. Fuori vedo solo grigio, misto di nebbia e smog.

Radio Veneto Tre – Giornale Radio.

Le notizie di lunedì 6 dicembre 2027 .

Trentaseiesimo giorno di smog nella pianura veneta.

Il ministro Zaio incontra il governatore Brugniro per il piano dell’autonomia della regione.

Il FAI chiede che i centri storici delle città venete diventino patrimonio dell’umanità.

Pronto il referendum per fare diventare Venezia frazione di Mestre.

Inaugurato a Legnago la prima zona industriale continua, che riunisce in unica entità i vari capannoni industriali dal centro della bassa veronese sino a Casaleone.

Per lo sport pronto il progetto del nuovo palazzetto dello sport e dello stadio di calcio a Fusina.

Direzione Villa del Conte, velocità 15 km/h. La nebbia si dirada un po’. Alvise vorrebbe abbassare un finestrino e sentire dell’aria fredda, ma sa che sarebbe una cosa stupida. Quella che si trova nel bagagliaio su due bombole e che coimbenta la sua auto è più sana di quella che c’è fuori. Riesce ad intravedere un po’ i contorni degli stabili che sono ai suoi lati. Lentamente scorrono Srl, Spa, Snc, Coop, Fresatura, Tornitura, Meccanica, Riduttori, senza un’interruzione. Ricchezza e bruttezza assieme.

In pianura padana nebbia e smog a livelli critici per il 36esimo giorno consecutivo. Già scattati da giorni i piani per il divieto di circolazione totale per gli autoveicoli di tipo Euro 6 ed Euro7. Le caldaie di vecchia generazione spente in tutti i condomini e multe salate ai trasgressori. La Regione Veneto pronta con il piano per il blocco totale del traffico.

L’auto si ferma di nuovo, avanzata di 365 metri appena. Alvise si accascia sul volante e con la fronte dà qualche colpetto allo sterzo, poi si raddrizza. Di fronte a lui una Range Rover ultimo modello che occupa tutta la corsia di marcia ed immagina che dentro quello spazio enorme ci possa essere Ruggero, da solo, mentre discute animatamente su Sociagram con qualcuno sul Milan.

Il ministro degli Interni Zaio incontra oggi al Ministero a Roma il governatore Brugniro per concordare la road map per l’autonomia federale del Veneto. “Sto portando a termine l’ impegno che mi sono preso dopo il referendum del 2017, per un Veneto Autonomo in un’Italia Federale” ha dichiarato il ministro. “Non voglio concedere”, ha proseguito, “una autonomia come quella dell’Emilia Romagna, ottenuta 5 anni fa, perché in quella regione i cittadini non sono stati chiamati ad una consultazione popolare”.

L’auto è ferma. Motore e luci accese. Di fianco a sé, nell’altra direzione di marcia, intravede nella nebbia un pick up enorme, nero. La guida una donna con gli occhiali, in tinta con il furgone. Capisce che deve avere il bambino seduto nei sedili posteriori perché parla allo specchietto retrovisore. Starà portando il figlio a Padova pensa; in questa zona tutte le scuole sono composte solo da figli di immigrati. Alvise la guarda mentre parla allo specchietto retrovisore mentre nel contempo si sistema le sopracciglia e si chiede se arriverà in tempo per la campanella della scuola.

I centri storici delle città del Triveneto, su proposta del FAI, patrimonio dell’umanità. Questa l’iniziativa per preservare e conservare le bellezze architettoniche delle nostre città. “Troppi gli scempi perpetrati da impresari edili interessati solo al tornaconto economico, in collusione con chi dovrebbe governare le città” le parole del segretario nazionale FAI Giuseppe De Marchi. “Vogliamo una protezione sovranazionale delle nostre opere, della nostra cultura, delle nostre bellezze, in modo da bloccare ogni scempio. Chiediamo quindi all’Unesco il riconoscimento di 23 città trivenete come patrimonio dell’umanità”.

L’altra corsia si muove, il pickup passa ed avanzano altre auto mastodontiche, ma quasi tutte con una sola persona dentro. Alvise le osserva e si rivede; si chiede che senso abbia questa grandezza.

Finita la raccolta delle firme nel comune di Venezia per far diventare Mestre il capoluogo. Il comitato Mestre al Centro dichiara di aver raggiunto il quorum per indire un referendum nel comune per far morire il comune di Venezia e far nascere il comune di Mestre. Il rappresentate del comitato Adriano Vianello ha dichiarato: “Si sa che Venezia è conosciuta il tutto il mondo, ma oramai è abitata stabilmente solo da qualche migliaio di persone, perlopiù anziani, mentre Mestre ha le dimensioni di una media città europea. Non ha più senso dichiararla frazione, semmai lo deve essere Venezia, diventata una città morta simile a Pompei. Anche Mes… “

Il flusso delle notizie si interrompe e parte lo squillo di una telefonata in arrivo. Alvise guarda il display e legge il nome di Simona.

“Pronto?”

“Ciao Simona”.

“Dove sei?”

Alvise si guarda attorno e sorride: “Arzignano? Casale? Arsego? Pegolotte di Cona?”. Quest’ultimo nome lo scandisce bene, sottolineandolo.

“Dai … non fare lo scemo… rispondi”.

“Ti sto rispondendo. Sono luoghi tutti uguali: nebbia, capannoni grigi, campagne umide, smog. Un posto vale l’altro”

“Allora cambio la domanda. Quanto distante sei da me?”.

Alvise visualizza le labbra di Simona, i suoi occhi, il suo collo.

“Sono fermo in coda” dice dispiaciuto con un tono sommesso.

“Sono sola qui in villa… e sai che da me in collina la nebbia non arriva mai. Vedresti i colori e non solo il grigio”.

Lui si accascia sul volante ed inizia a sbattere la testa come aveva fatto prima.

“Che rumore è questo? Cosa stai facendo Alvise?” chiede lei.

“Nu-Nulla.. “ si sbriga a dire velocemente mentre si ricompone. “Sono verso Villa del Conte da qualche parte”. La macchina avanza.

“Stai andando in ditta da lui?”

Alvise sa che Simona capisce tutto. E che è inutile nascondergli le cose; molto più semplice dirgli la verità. “Sì”

“Perché?.. Ti avevo chiesto di non lavorare per lui”.

Alvise sente un fuoco crescergli dentro. “Perché ho bisogno di lavorare! Di soldi!” dice alzando la voce. “Cosa credi che questo bestione che guido, l’appartamento a Bassano e le altre cose, non abbiano un costo?”

“Alvise. Non dirmi così. Ti avevo detto cosa fare”.

Il motore aumenta i giri, ingrana la seconda marcia. Finalmente.

“Accettare la tua rendita?” risponde Alvise.

“Non lo era!” urla Simona questa volta. “Era un lavoro ben retribuito, un progetto che poteva durare per diverso tempo presso un’azienda solida”.

Alvise sa che ha ragione, che il suo orgoglio maschilista gli ha fatto rifiutare un bel lavoro oltre che ben retribuito. E lo sa anche lei.

“Hai rifiutato una buona opportunità. Anche se io non lavoro più riconosco ancora le persone che valgono e da valorizzare. Ma tu hai scelto diversamente”. Sottolinea quel tu come per rimarcare la scelta stupida che ha fatto. “E guarda quel rifiuto dove ti ha portato: a lavorare per lui”.

“Paga bene anche lui”. Dice le cose ma si sente stupido. Dovrebbe pesare le parole prima di dargli voce.

Il silenzio cala nell’abitacolo. L’Audi avanza, davanti nella Range quello che dovrebbe essere Ruggero si sta agitando come se stesso litigando con qualcuno. Ma è da solo.

Come Alvise adesso.

“Scusami Simona” riesce a dire.

“Ti controllerà in questo modo Alvise”.

Solo silenzio.

“Lascialo perdere, troverai una soluzione. Vieni da me”.

Le sue gambe, i suoi fianchi, i suoi seni, la sua anima. Alvise vede tutto.

Gira a destra per una strada, accellera violentemente, il booster entra in funzione. Vede poco davanti a sé ma non se ne cura. Destra, Destra, Sinistra. Da un momento all’altro potrebbe schiantarsi. O vorrebbe.

Frena di colpo, ruote bloccate. Si ferma pochi centimetri da una ringhiera. In alto risplende una insegna luminosa che irradia la scritta “SecurityControlSrl” nel grigiume.

“Vieni da me” ripete Simona dagli speaker.

Alvise spegne il motore, depressurizza l’abitacolo, si prepara la maschera. Inizia a piangere in silenzio.

“Ciao Simona” dice prima di riagganciare.

Scende dall’auto. Guarda in alto il capannone grigio.

Nella sommità si intravedono le antenne. Alcune finestre sono illuminate.

Entra in azienda e chiede di lui alla segretaria dietro al desk.

“Il proprietario el sé drio aspettarlo di sopra da 45 minuti” le dice.

“Una coda immane”.

“Poteva partire prima. Sa che non è bello farlo ‘spettare”.

Alvise non lo dice ma pensa che la segretaria certi commenti potrebbe risparmiarseli.

“E comunque nol sé queo el modo di frenare. E’ da maleducato”.

Sale le scale, bussa ad una porta. Una voce maschile gli dice di entrare.

Lo vede seduto dietro la scrivania. Si guardano.

“Buongiorno”.

Lui non dice nulla, lo fissa.

“Ho trovato coda” cerca di giustificare Alvise.

Lui si alza, gira attorno alla scrivania e gli si pone davanti. Senza mai distogliere lo sguardo.

“Hai fatto bene a rifiutare l’invito di Simona”.

VA TUTTO BENE…

Mio padre è morto dieci giorni fa, a due mesi esatti da quella di mia madre.

Non ho fatto in tempo ad elaborare la prima assenza che è arrivato un altro potente colpo. Molto potente.

Mi sono ritrovato con un dolore che so che si deve esprimere. Ho passato giorni di confusione, di fatica, in cui mi sono chiesto cosa stessi facendo.

Il culmine martedì, in cui il pianto usciva facile. Sino a che, finalmente a casa e da solo, ho pianto come non mai, tanto da rompermi dei capillari.

Quel giorno è successa una cosa che solo ora forse valuto nella sua portata, visto che al momento in cui è accaduta l’ho giudicata come una allucinazione dovuta al mio stato.

Una canzone di Cremonini con le sue note e con le sue parole mi aveva toccato molto; l’ho ascoltata in continuazione, piangendo. Ad un certo punto la mia mente ha visto mia madre che mi cingeva le spalle. Era lei alla mia età attuale, un maglione rosso, rossetto dello stesso colore sulle labbra, occhiali. Mio padre c’era, ma era dietro di lei e non definito.

Io sgorgavo lacrime che cercavo di trattenere. Però lei mi ha rassicurato, mi ha detto che andava tutto bene, come fa una madre con il suo bambino piccolo, quello che mi sentivo io in quel momento.

Mi ha anche detto che loro stavano bene, che non mi dovevo preoccupare. Sono stati con me alcuni minuti.

Sono passati dei giorni da quel momento di dolore intenso.

Forse erano allucinazioni, non c’è una logica. Ma sto iniziando o a capire che un contatto con loro comunque ci sia stato. Perché dopo quel giorno io sono molto più tranquillo e non ne ho un motivo.

Anche se piango ogni tanto al ricordo di loro due, anche se il dolore fluttua, anche se so che avrò altri giorni brutti, io sono tranquillo.

Perché so che stanno bene.

Me lo hanno detto MeMare e MePare.

 

The House in The Middle of the Street

La via è simile a tante altre. Lunga, asfaltata e sui due lati si affacciano case, quasi tutte singole, ad uno o due piani.

Edilizia anni 60, disegnate da geometri e costruite quasi tutte direttamente dai propietari.

Si davano una mano l’un con l’altro nel costruirle; un giorno un muro da Sandro, quello successivo il tetto da Sergio. Sino alla conclusione.

Erano l’Italia del boom, l’Italia in cui una stretta di mano valeva un contratto, ed andava rispettata. Una volta ho conosciuto il proprietario di una rivendita di materiale edile. Mi disse che in quegli anni chi si costruiva la casa andava da lui a chiedere i mattoni, la calce, la malta. E poi ogni settimana, in bici, tornavano per pagare la quota rateizzata che veniva concordata e che nessuno, proprio nessuno, non manteneva fede ai propri impegni. Senza una firma, senza un contratto, solo sulla parola, ripettando il proprio onore.

Fu dopo, con l’arrivo delle imprese edili, che lui ci rimise soldi. Non con quegli operai che uscivano dalle fabbriche di Marghera o di Mira, ed andavano a casa a costruirsela.

La via però ha una caratteristica. A metà l’asse stradale, chissà per quale motivo, si sposta di qualche metro in senso parallelo a destra rispetto a quello precedente. I due pezzi sono uniti da una piccola curva ad ‘esse’.

Di fatto però la strada è divisa in due, da quelli che la abitano all’inizio, rispetto a quelli che la abitano dopo la curva. Tanto basta per creare due comunità. A dimostrazione che certe volte è la geografia del luogo che crea la società.

A meta del secondo pezzo c’è una casa ad un piano; un corridoio di entrata alla cui fine si trova la stanza del bagno. Sempre sul corridoio si affacciano 4 porte, due per lato. A destra prima la camera da letto dei genitori, poi quella dei figli.

A destra la sala da pranzo, poi la cucina.

Ma era la posizione strategica che la rendeva particolare;  a metà del secondo pezzo di via. Ed era dove molte persone affluivano per ritrovarsi, per chiaccherare, tutto confluivano lì.

I bambini del tempo giocavano lì davanti: pallone, nascondino, pallavolo. Tutto quello che una banda di ragazzini potevano realizzare in quegli anni ’60 e ’70.

E le mamme stavano lì a guardarli ed a parlare tra loro. A metà della via.

Solo che poi i ragazzini sono cresciuti, sono andati via da quel posto, c’era il mondo da scoprire.

Ma i genitori sono rimasti lì. Ed hanno continuato a confluire a metà della via. A parlare, a chiaccherare, a bere caffè, ad aiutarsi, a vivere assieme.

Per più di 60 anni quella casa è stata vissuta, da chi l’abitava, dagli altri che la frequentavano.

Tra poco sarà chiusa. L’ultimo abitante l’ha lasciata. E tutta la strada è in lutto, perché era al centro delle  vite di molti di loro.

La vita intanto  va avanti. Sempre avanti.

Ma dimenticare quel pezzo di strada, quella casa, quelle persone…. Mai…Mai e poi MAI

 

RESPIRO

Il Figlio presta attenzione al respiro del padre, volgendo la schiena al letto di ospedale dove è steso.

Re spi ro. Re spi ro.

Guarda fuori dalla finestra, con la fronte appoggiata al vetro e vede la vita proseguire: le auto passano, sul campo da calcio in fondo una partita è in corso ed i tifosi urlano.

Re spiro. Re spiro.

Nella stanza invece tutto è sospeso, nell’attesa che qualcosa accada.

RepiroRespiro

Il cellulare suona: gli comunica il risultato finale della partita dello Fc StPauli della 2 Bundesliga tedesca.

Subito dopo un altro rumore; una mail con le offerte di Amazon.

Reeeeespiro. Reeeeespiro.

Il Figlio nota che quelle cose in altre occasioni lo interesserebbero ma ora gli danno fastidio. Vorrebbe che ci fosse una modalità nuova di utilizzo dello smartphone. Quella chiamata Lutto.

Respi ro. Respi ro.

La vorrebbe attivare ora per chiudere le comunicazioni a tutti i suoni derivati da cose futili.

E che faccia passare solo le parole che servono.

Rspro. Rspro.

Il Figlio si siede sulla sedia che si trova accanto al letto, chiude gli occhi e si allunga. Ma continua a seguire il suo ritmo.

Reeeeeespiiiiiiiirooooo. Reeeeeespiiiiiiiirooooo.

E si chiede quale sia…

È questo?

Questo?

O questo?

Quale sarà il respiro che lo farà diventare un orfano?

INCIPIT

Michele apre la porta dello spogliatoio ed entra lasciando fuori tutto.

Si posiziona al centro, attorno a lui le panchine e gli appendiabiti con appoggiati indumenti e borse. Di Alberto, di Giulia, di Daniel, di Dade, di tutti gli altri.

Attraverso i finestroni in alto vede il sole di inizio giugno allo zenit del giorno; gronda sudore, la polo che indossa ne è fradicia ed il caldo della stanza non fa che aumentare il suo disagio.

I muri dello spogliatoio, che si trovano sotto le tribune del palazzetto, stanno vibrando dei salti, dei festeggiamenti, delle urla di gioia dei tifosi della squadra che ha vinto il titolo. Avverte che i sostenitori dell’altra non si sentono ed immagina stiano rincuorando i giocatori sconfitti.

Non vede queste scene ma sa che stanno accadendo, perché da quando esiste lo sport succede così: una parte vince e l’altra perde, una festeggia e l’altra si dispera.

Sente tutto il rumore che quella cassa di risonanza amplifica. Ascolta, ma non pensa a nulla, non ha pensieri; nella mente e nell’animo un’enorme schermo bianco.

Resta immobile e si sorprende di essere in quello stato.

Chiude gli occhi, allunga la schiena, una vertebra alla volta, espira forte, le braccia lungo il corpo, tende i muscoli delle cosce; è dentro al momento ma lontano da esso.

Di colpo molla la tensione, si abbassa, carica il corpo di potenza, si giro di scatto, alza il braccio destro con il pugno chiuso, disegna nell’aria un arco e sferra un colpo violento alla superficie soffice del lettino dei massaggi.

Poi un altro.

Ed un altro ancora.

Con tutta la potenza che possiede, con la voglia di scuotersi, con la rabbia di anni.

La gomma piuma attutisce il rumore dei colpi potenti ma i pugni non hanno lo scopo di spaccare, ma bensì di liberare.

Si ferma, si ricompone, torna calmo, regolarizza il respiro, lentamente torna diritto, mette le mani sui capelli bagnati e per la prima volta ascolta i battiti veloci del cuore. Resta così, in quella posizione, cercando di capire cosa prova, spalle ai finestroni ed al sole, ad occhi chiusi.

Avverte alzarsi un sentimento di liberazione, la fine di qualcosa e l’inizio di altro.

La porta si apre, lui sposta la testa, solleva le palpebre e vedo Dario.

“Sapevo che ti avrei trovato qui Michele” gli dice.

Lo guarda ma resto in silenzio.

“Torna in campo dai ragazzi. Stai con loro”.

“Dammi una sigaretta Dario”.

“Tu non fumi Michele”.

“E’ vero. Ma tu dammela”.

“Torna in campo. Più tardi ti faccio fumare”.

Si guardano un attimo, poi entrambi sorridono.

Michele esce e si incammina verso il campo ridendo e cercando di immaginare a come più tardi possa riuscire a fumare.